di Barbara Minafra
Ci potremmo chiedere dove nasce l’odio. Cosa lo causa. Perché ne troviamo così tanto in rete. Quali strumenti usare per contrastarlo, come veicolare messaggi capaci di innescare dialettiche inclusive anziché distruttive. Se pensiamo all’hate speech puntiamo istintivamente il dito contro internet, serbatoio di leoni da tastiera, troll, odiatori, cyberbulli, stalker che si sentono autorizzati a minacciare, denigrare, offendere, colpevolizzare e insultare, e contro filter bubble e big data che riescono a rendere la loro violenza così virale.
Ma attenzione: internet è il mezzo, non la causa. Limitarsi ad additare le piattaforme è un errore di prospettiva. Bisogna invece affrontare il nemico, guardare negli occhi l’odio che, stando alla definizione della Treccani, è il “sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui”. È il “mostro” che ci rifiutiamo di riconoscere ma che convive nei nostri spazi sociali, è il problema che c’è ma non vogliamo vedere e finchè ci sarà, emergerà in rete.
Bisognerà certamente agire sul mezzo per rendere l’inquinamento mediatico e l’informazione tossica meno pervasivi, meno amplificati. Ma con un’operazione algoritmica servirà un contrasto culturale e servirà un linguaggio differente supportato da un atteggiamento mentale e sociale capace di evitare, rifiutare, disprezzare, le manifestazioni di odio.
A febbraio 2021 un team interministeriale ha prodotto il Report “Odio online” in cui si evidenzia come il concetto di odio riguardi esperienze soggettive non standardizzabili. Il resoconto finale, che passa in rassegna le diverse definizioni di hate speech, ne indaga la fenomenologia, propone un’analisi di cosa è stato fatto o si sta facendo a livello internazionale per contrastarlo, ed elabora raccomandazioni sulle azioni da intraprendere.
Già nel luglio 2017 la Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio intitolata a Jo Cox e istituita dalla Camera dei Deputati, aveva dimostrato l’esistenza di una “piramide dell’odio” alla cui base si pongono stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile purtroppo “normalizzato” o banalizzato e, ai livelli superiori, discriminazioni, azioni e perfino crimini di odio.
La relazione finale aveva indicato 56 raccomandazioni con azioni orizzontali per promuovere una strategia nazionale finalizzata a contrastare in modo complessivo l’odio in tutte le sue forme.
Evidentemente si è ancora lontani dai risultati attesi.
Curiosamente, la premessa del Report “Odio online” inizia così: “Gli esseri umani sono liberi di provare sentimenti. L’odio è uno di questi. È una libertà inalienabile”.
Ai più questa dichiarazione non può che apparire contraddittoria, almeno con le finalità che si propone il rapporto. La verità è che esiste una fiorente letteratura internazionale sulla “necessità” di “accettare” l’odio online, se pure con le dovute cautele. Necessità motivata almeno da due ragioni: la prima è che è un sentimento che si manifesta come tutti gli altri e che, manifestandosi, almeno se ne può avere contezza. La seconda è connaturata all’idea di democrazia: deve poter trovare espressione. Questo però non significa “liberi tutti”. Anzi.
Il rapporto lo dice nelle primissime righe: “Quando dal desiderio del male altrui si passa all’azione, per favorire o realizzare tale male, subentrano le responsabilità”. Ovvero il diritto di odiare deve confliggere, e dunque cercare una forma di mediazione e mitigazione, con il diritto a non essere odiati.
In “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online” Stefano Pasta ci dice che il tema dell’odio online, purtroppo diffusissimo, ci impone di prendere in considerazione non più solo lo Stato da un lato e gli individui dall’altro, immaginando al centro una legislazione che regolamenta i rapporti e la società, ma di considerare il coinvolgimento di un terzo attore: il web.
Nell’era digitale, l’accesso e il controllo dell’informazione passano in gran parte dalla rete che si pone come intermediario tra la sfera pubblica e gli utenti di internet. Questo significa che per capire di cosa si parla, occorre tenere ben presenti anche le dinamiche digitali dell’odio perché lì spesso l’hate speech si genera, lì trova il suo humus sociale ed emotivo, lì incontra gli strumenti di propaganda e propagazione.
Pasta elabora una fenomenologia dell’odio virtuale: assenza di empatia, analfabetismo emotivo, razzismo dilagante. E di conseguenza indica una possibile controffensiva da affiancare a soluzioni normative che scavalchino le attuali autoregolamentazioni dei social network, anche perché i codici di condotta delle varie piattaforme comunque lasciano che le libertà fondamentali degli individui e i loro diritti siano regolamentati da aziende private, comunque portatrici di interessi di parte. La soluzione che propone è pedagogica: per arginare l’odio sul web occorre passare dall’educazione sociale al sentimento e dall’empatia.
Tra le raccomandazioni finali, anche il Report interministeriale “Odio online” indica una triplice strategia (la stessa che la Commissione Europea sembra aver scelto) che passa per: “1) Azioni di prevenzione, con obiettivi di lungo termine, centrate sull’educazione civica e digitale, la cultura giuridica, la ricerca, l’informazione, la comunicazione; 2) Innovazione normativa capace di costruire un quadro giuridico adeguato all’ambiente digitale sia per le aziende private che per i cittadini che fruiscono dei servizi digitali. Un quadro nel quale, con metodo aperto, inclusivo e basato sull’evidenza siano chiaramente definiti ruoli e responsabilità nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona; 3) Sostegno fattivo alle iniziative orientate a progettare, sperimentare e costruire nuove piattaforme e ambienti mediatici, in modo da favorire l’info-diversità nell’ecosistema digitale e aumentare le probabilità che emergano soluzioni adatte a favorire condizioni di vita online più rispettose dei diritti umani e del valore della conoscenza di qualità”.
Una lotta ai discorsi dell’odio è considerata di fondamentale importanza nella costruzione di una società coesa e democratica, nella protezione dei diritti umani e nella tutela dello stato di diritto. Se non contrastato, l’hate speech può portare ai crimini d’odio, che poi è il momento in cui dalle “parole per ferire” si passa ai fatti criminali.
Il punto sostanziale, dice il Report “Odio online”, è che “l’attività più profonda che si possa progettare per ottenere risultati nel lungo periodo è quella che incide sulla cultura, a livello di formazione, informazione e comunicazione”.
Il tutto dovrebbe muoversi dentro un “programma educativo per la consapevolezza digitale in Italia”, una rieducazione (laddove ci sono diffusi comportamenti poco consapevoli all’uso degli strumenti digitali) e non una semplice azione repressiva.
Sì, perché la consapevolezza e la responsabilità sono due elementi strategici per generare un cambiamento: se restiamo indifferenti all’onda montante di odio in rete, produciamo lo stesso effetto deleterio che abbiamo se lasciamo gli odiatori senza limiti di espressione e azione.