di Maurizio Corte
L’Italia multietnica, quella che resiste, trionfa a Tokyo. Se può stupire qualcuno, è perché ci si dimentica che la diversità – fisica, etnica, culturale, religiosa, di sentimenti – fa parte della storia d’Italia (e del mondo).
E che l’Italia dà il meglio di sé stessa nei momenti più bui. L’Italia che vince alle Olimpiadi 2020 di Tokyo conquista 40 medaglie: dieci d’oro, dieci d’argento e venti di bronzo.
L’immagine che fotografa l’Italia che vince, dal campionato europeo di calcio a Tokyo, è quella della squadra, del sacrificio e del riscatto. Anche dietro un singolo atleta c’è un team che lavora, ci sono giorni di duro impegno e ostacoli da superare.
Ha bene sintetizzato il presidente del Coni, Giovanni Malagò: a vincere è stata un’Italia integrata, multietnica e che ha portato tutte le regioni (e le province autonome) alle competizioni. Gli atleti italiani in gara sono nati in almeno uno dei cinque continenti. Nessuno escluso.
Possiamo dire che i trionfi, le vittorie, ci raccontano come la diversità sia un valore. Non è però facile essere “diversi”. Non è facile neppure “gestire la diversità”. Anche quella di carattere, di valori in cui credere, di sentimenti su cui puntare. E di sport da praticare.
A me è spiaciuto, ad esempio, che il calcio italiano non sia stato presente alle Olimpiadi. Non c’è spazio per un gioco dai molti significati psicologici e sociali? Conta solo l’atletica e contano solo gli sport di nicchia?
Oppure il business del calcio miliardario non si concede la battaglia senza palcoscenici da divi quale dev’essere l’Olimpiade?
Cosa ci racconta la vittoria dell’Italia, nelle prime dieci nazioni quanto a medaglie, sul piano interculturale?
Un elemento che è comune a tutti gli atleti è la loro diversità: non solo del colore della pelle – con un atleta di origini africane fra i quattro più veloci al mondo in staffetta 4×100 – ma anche dell’accento con cui parlano, delle storie di vita, delle origini, del modo di vedere le cose.
Le atlete donna hanno potuto affermare che gli sport “maschili” – come la boxe – non sono esclusiva di quello che un tempo era definito il “sesso forte”.
Chi ha avuto un infortunio o una malattia – dal Covid alla mononucleosi – ha dimostrato che si può combattere per tornare a vivere alla grande. Magari non tutti ci riusciamo, ma almeno possiamo sperare di alzarci dalla linea di base.
Persino la più minuscola delle realtà sportive – una piccola regione, un borgo malfamato, un paese sperduto di qualche provincia – ha avuto la sua possibilità di riscatto.
Poi vi è da sottolineare come sia stato importante l’impegno per un traguardo. La “diversità” sta anche in questo: riuscire a contrastare la narrazione dominante che sembra invitare ad arrenderci, oppure a godere del momento, oppure a pensare che non vi è un domani.
Quelle quaranta medaglie – soprattutto quelle di bronzo – e tutti quegli atleti e atlete che sono rimasti e rimaste fuori del podio, ci insegnano che “le battaglie non si perdono mai, si vincono sempre”, come diceva il medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, che di battaglie si intendeva.
Non è difficile sbattere in faccia la realtà delle vittorie “multietniche” a chi pensa che solo “una razza” abbia diritto di supremazia, come se esistessero più razze nel genere umano.
Non è, però, questo il messaggio fondamentale delle vittorie dell’Italia sportiva a Tokyo 2020: quello che ci portiamo a casa, in un’Italia vincente che giocoforza è (da sempre) multietnica, è lo stimolo a non mollare mai. Lo stimolo a ripartire dopo una caduta. Il credere in noi stessi, nel gioco di squadra, nella possibilità che a ognuno – che si impegna – è data.
Poi, si sa, anche alle Olimpiadi di Tokyo 2020, anche nell’Italia multietnica delle sport, vince chi ci ha messo più impegno. E chi, per una qualche forma di giustizia, ha avuto un millesimo di secondo in più di fortuna.