di Gaia Corradino
Era il 6 maggio del 1971 quando è iniziato il primo cold case italiano, che ha dato la svolta ai futuri casi giudiziari italiani più controversi.
Quel giovedì, a Genova, scomparve Milena Sutter, figlia del noto industriale Arturo Sutter, proprietario dell’omonima azienda della cera.
Aveva tredici anni e venne vista l’ultima volta alle ore 17 circa, all’uscita della Scuola Svizzera, dove frequentava la terza media.
Si pensò dapprima a un rapimento, movente sostenuto da una richiesta di riscatto rivolta alla famiglia Sutter proprio la mattina dopo.
Vennero chiesti cinquanta milioni delle vecchie lire in cambio di Milena viva.
Non si seppe però più nulla per due settimane esatte, fino al 20 maggio, quando venne ritrovato il suo corpo senza vita al largo di Priaruggia (una spiaggia distante una decina di chilometri da Genova).
Dall’ipotesi di rapimento per estorsione si è passati a quella dell’omicidio, anche se il reale movente era ancora ignoto.
La narrazione costruita dai media: la vittima Milena
La notizia della scomparsa di Milena ha destato subito stupore e preoccupazione tra gli abitanti di Genova, fino a raggiungere i Paesi d’oltralpe.
Per i genovesi, secondo le varie dichiarazioni riportate dai quotidiani dell’epoca, Milena era la figlia di tutti e perciò tutti sentivano di aver perso qualcuno di caro.
Milena era considerata la “bambina rapita dal mostro” dal quale doveva essere protetta. Ma ci sono due controversie a riguardo.
Basterebbe osservare le foto rimaste di lei, per capire che si trattava di una giovane ragazza che praticava sport, con un fisico forte e che dimostrava di avere qualche anno in più della sua età.
Il dubbio sorge spontaneo: con queste premesse sarebbe stato difficile non notare che sia stata rapita con la forza.
In secondo luogo, la parola stessa di “bambina” non coincide con la realtà dei fatti.
A tredici anni si parla di adolescenza e non più certo di un periodo di fanciullezza.
La rappresentazione dei media su Milena è riassumibile nell’uso edulcorato di termini per evidenziare la vittima come “persona indifesa” e darne l’idea di bambina fragile e manipolabile.
Oltre a questi particolari, sulla sua persona i media non hanno dato molto spazio.
La narrazione costruita dai media: il mostro Lorenzo
Per questi fatti criminosi venne, nel 1971, accusato l’unico sospettato: Lorenzo Bozano, venticinquenne di Genova e di famiglia alto-borghese.
Fin da subito, egli fu considerato quel “mostro” che si permise di rapire e uccidere Milena.
È stato il personaggio perfetto per riuscire a chiudere in fretta il caso.
Nessuno ebbe dubbi, era lui il Perfetto Colpevole. Anche il giudice istruttore Bruno Noli ne fu convinto.
Per prima cosa, il suo difficile background familiare e sociale e i suoi piccoli precedenti penali hanno facilitato a renderlo un bersaglio per l’accusa.
Inoltre, tra gli indizi a suo sfavore emerse un piano di rapimento, considerato un progetto ben studiato di sequestro a scopo di estorsione e il successivo omicidio della vittima, che Bozano giustificò essere una ipotetica pista collegata al caso di Sergio Gadolla (avvenuto nel 1970).
Tra le carte perquisite figurò anche il numero della scuola di Milena, trascritto da Bozano interessandosi alla vicenda mentre fu considerato rilevante per gli investigatori in quanto prova che egli avrebbe chiamato i Sutter per il riscatto.
Non solo. Secondo alcune testimonianze, egli sarebbe il giovane che si appostava fuori dalla scuola di Milena e nelle vicinanze di casa Sutter, accanto alla sua spider rossa sgangherata.
Da questo dettaglio gli venne etichettato il nome di “biondino della spider rossa”.
Anche qui è sufficiente dare un’occhiata alle foto dell’allora venticinquenne Bozano per contestare l’emblematica etichetta: Lorenzo non era né biondo né esile.
Egli, però, sulla base delle prove raccolte, a quel tempo considerate sufficienti, venne condannato all’ergastolo (dopo l’assoluzione di primo grado), che tutt’oggi sta scontando nonostante abbia ottenuto la semilibertà.
Il processo mediatico: i dubbi e i punti fermi
Non c’è solo il processo giudiziario nelle aule dei tribunali a valutare le azioni di un imputato.
Un’altra sentenza arriva dai media, un impatto spesso più pesante della vera condanna.
Sulla vicenda di Milena se ne occuparono i giornali di Genova, Il Secolo XIX e Corriere Mercantile, che raccolsero le informazioni dalle sole fonti ufficiali, precludendo altre versioni da differenti canali d’informazione.
La storia da loro narrata non fu lineare, bensì costellata dai dubbi.
Gli unici punti su cui la convinzione non vacillava erano due: l’uccisione di Milena avvenuta con intenzionalità e il ruolo di Bozano come l’unico sospettato che possedeva la spider rossa e considerato colpevole.
Il movente per cui Milena fu uccisa è stato, però, di maggior interesse per i media.
In principio i fatti apparivano chiari: tutte le testate evidenziavano il rapimento a scopo di estorsione, in seguito alle chiamate di richiesta del riscatto.
Poi scaturirono i dubbi sull’ipotesi di un sequestro a sfondo sessuale; soltanto alla fine i giornali attinsero alle fonti ufficiali degli investigatori e dei magistrati, confermati nel processo del 1973.
La narrazione mediatica continuava a mantenere fermo il punto riguardante la figura di Lorenzo Bozano.
Egli aveva ormai un’etichetta sebbene la sua immagine emergesse da descrizioni non proprio neutrali né oggettive.
Le piste trascurate dalle indagini
Lo storytelling dei media non include le piste non indagate seppur meritevoli di approfondimento.
Come ad esempio la conoscenza fatta con un certo Claudio e altri ragazzi, tramite l’amica Isabelle, in una pista di pattinaggio nel novembre 1970.
Fatto confermato dal diario personale della stessa Milena.
Inoltre, il nome di “Claudio my love” apparve scritto sul suo zaino.
In merito non sono mai state fatte (o non risultano nei documenti ufficiali) le indagini né è stato mai cercato tale Claudio per un eventuale interrogatorio, ragazzo di cui non si è mai accertata l’identità.
Anzi, gli investigatori negarono perfino che Milena abbia mai fatto qualche conoscenza o stretto amicizia con qualcun altro negli impianti sportivi che frequentava.
Un’altra pista era l’esistenza di un “biondino svizzero”.
Ne parlò una testimone anonima durante una chiamata fatta alla trasmissione “I Grandi Processi” su Rai Uno nel 1996.
La signora raccontò di frequentare la Scuola Svizzera nel 1970 e di aver conosciuto un ragazzo, biondino svizzero, che l’aveva avvicinata con l’inganno.
La sua reale intenzione, insieme ad un amico, era quella di approfittarsi di lei.
Riuscì ad evitare la tragedia, sporse denuncia che però ritirò anni dopo persuasa da un giudice.
Non fece mai il nome del ragazzo, ma ne parlò con persone vicine al processo di Bozano (perfino con un suo avvocato).
Alla luce di questa testimonianza, però, la questione non ebbe seguito.
Un’ulteriore pista è identificata in Isabelle, l’amica del cuore di Milena più grande di soli un paio d’anni.
Essendo un’amica stretta avrebbe potuto essere una fonte autorevole per nuovi indizi.
Isabelle, per, non fu mai sentita come testimone ai processi; dunque, un tassello fondamentale risulta ancora oggi mancante.
Anche qui la domanda sorge spontanea: perché le indagini sembrano aver trascurato prove rilevanti o non analizzate in modo completo?
Il caso dopo mezzo secolo
Oggi, dopo 50 anni esatti, i punti interrogativi (anche dal punto di vista scientifico) sono ancora tanti a fronte di ben poche certezze.
Mancano le prove oltre ogni ragionevole dubbio, quelle che non lasciano spazio ai dubbi.
Questo caso di cronaca nera è una pagina nota a chi ha vissuto gli anni Settanta, alcuni dei quali preferiscono non ricordare più per rispetto e per dolore.
Forse non sapremo mai come sono avvenuti i fatti, li possiamo solo ricostruire dai materiali che abbiamo.
E sono questi materiali il punto importante da cui partire, non quello di accusare o assolvere qualcuno. Questa non è di nostra competenza.
A tal proposito c’è un blog attivo, che tratta del caso da un punto di vista oggettivo e con un giudizio critico, più giornalistico se possibile.
Non si limita solo a raccontare i fatti avvenuti e la lunga ricerca durata anni, raccolta nel libro “Il Biondino della Spider Rossa. Crimine, giustizia e media”.
Il blog affronta, attraverso fatti accaduti o storie di fiction, tutti i temi inerenti alla cronaca nera, alla giustizia e al linguaggio dei media tramite articoli con un approccio narrativo ma pur sempre rispettoso.
Il team de Il Biondino che si occupa di questo spazio sul web si impegna nello svolgere un lavoro inedito e curioso; l’obiettivo è quello di coinvolgere più persone possibile e aprire a loro nuovi interrogativi alla ricerca della verità.