di Marta Gabucci
Durante la giornata di venerdì 27 novembre, il quinto festival “La violenza illustrata”, con il titolo “Vicine di casa”, ha dato spazio a un webinair dal titolo “Le parole per (non) dirlo: strategie di contrasto sul sessismo in rete” per poter trattare un tema su cui, come spiegato all’interno della conferenza, abbiamo motivo di allarmarci.
L’evento ha avuto la mediazione di Paola Rizzi, giornalista facente parte dell’associazione “GiULiA giornaliste”, nata nel 2011 con l’intenzione di combattere la discriminazione nei confronti di giornaliste nelle redazione, o più in generale dei ruoli femminili nei luoghi di lavoro e, ancora, il contrasto agli stereotipi nel linguaggio con il quale i media raccontano «il mondo, il mondo delle donne e la violenza di genere».
L’associazione partecipa a una rete nazionale nata nel mese di luglio, per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, che riunisce le principali associazioni, gli agenti ed esperti che si stanno muovendo sul territorio italiano.
L’obiettivo di questa è quello di diventare un interlocutore con chi si trova in posizioni di potere, per mettere insieme le conoscenze che queste agenzie e associazioni hanno sviluppato nelle loro attività per poi lavorare su più livelli, sia sull’educazione che sulla prevenzione: attuarsi perciò in campo scolastico, mettendo a punto strumenti di contrasto.
La giornalista cita, tra le associazioni di questa rete, Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, che ha presentato la quinta edizione della mappa delle intolleranze, una mappa che monitora annualmente il peso del linguaggio d’odio sui social, con un interesse particolare per Twitter. La mappa rivela come il bersaglio maggiormente colpito sui media, sia proprio il genere femminile, in testa con un 49%. Il tutto è reso ancora più grave nel momento in cui si nota come il secondo posto venga occupato con “solo” un 17%.
Silvia Carboni, psicoterapeuta, rappresentante della “Casa delle donne per non subire violenza” di Bologna, ONLUS che opera sulla prevenzione primaria tra gli adolescenti, spiega come il loro lavoro li porti tutti i giorni ad approcciarsi ai giovani: «Quello che osserviamo è come le forme a cui sono esposti gli adolescenti sono cambiate: sono aumentate, sia nella esposizione sia nella tipologia e sono tutte ambientate nei luoghi della rete».
La differenza sostanziale vive nel fatto che le vecchie generazioni non passavano così tanto tempo sui social. Oggigiorno l’esposizione al digitale è anticipata, è precoce: si parla di età in cui non si hanno neanche gli strumenti di lettura opportuni.
«I giovani oltretutto», dice la psicoterapeuta, «sono spesso soli nei loro approcci e sono vulnerabili: si sentono protetti dallo schermo oppure sono esposti da questo, c’è una doppia valenza».
Si è notato che l’età comporta anche una leggerezza rispetto al significato del linguaggio scelto. Si tratta di un linguaggio culturalmente condiviso e, per questo motivo, accettato, che può però creare conseguenze a cui non si pensa, sia a livello emotivo che penale.
È perciò importante lavorare con i più giovani, attuando sia il gioco che la narrazione: «gioco come strumento attraverso cui i bambini entrano in relazione, la narrazione come quello strumento che ci permette di attribuire significati».
L’approccio della ONLUS viene poi ripreso nelle parole di Giorgia Fusacchia, a nome dell’Associazione SCOSSE (Soluzioni Comunicative Studi Servizi Editoriali) di Roma. Il loro lavoro inizia con la fascia 0-3 anni, attraverso la realizzazione di laboratori che hanno l’intento di decostruire gli stereotipi di genere.
Il loro metodo viene calibrato in base all’età, partendo così da albi illustrati, materiale MIUR fino all’utilizzo, con fasce maggiori, di serie tv in voga al momento. Cercano di coinvolgere l’intera rete scolastica, partendo sì dai bambini, passando ad educatori ed insegnanti e terminando con i genitori, creando così un coinvolgimento dell’intero contesto di crescita.
La sociolinguista Vera Gheno racconta come il suo operato sui social network vada a incidere sul grave problema di sessismo linguistico. Soprattutto su Facebook, si è resa conto che «non si ha piena consapevolezza di ciò che si può provocare». Ciò che emerge è che l’utente ha una autopercezione linguistica molto scarsa, così come la consapevolezza del proprio sé online e questo porta ad una reazione violenza nei confronti, principalmente, della questione di genere.
Il suo intento è quello di riportare le persone a ragionare sulle motivazioni del proprio nervosismo e sui propri stereotipi linguistici che causano, come spiegato poi da Debora Angeli, facente parte del COSPE, il rilascio di dati dall’International Center for Research on Women che rivelano come il 73% delle donne a livello globale hanno subìto una qualche forma di violenza sul web.
L’Osservatorio di difesa ha riportato una ricerca basata su adolescenti dai 13 ai 23 anni, che rivela come ci sia una grande consapevolezza della violenza contro le donne sul web ma che sia principalmente femminile.
È sempre più importante, racconta Angeli, non dimenticare il nesso tra stereotipi di genere e violenza contro le donne, così come il nesso tra potere e sessismo: infatti, una donna che decide di candidarsi per ricoprire un ruolo di potere, sa già che dovrà sorbire tutto ciò che ne consegue.
Viviamo in un paese che ha ancora una forte cultura patriarcale perciò risulta evidente, dopo questo incontro, quanto sia importante collaborare, tutti insieme, per notare tutti i segnali e lavorare per eliminarli, per imparare a vivere uguali.