di Marta Gabucci
“Sostituire per legge la parola patriarcale c**** con la parola Murgia”. Così inizia un tweet di Massimiliano Parente, collaboratore della testata “Il Giornale) e scrittore per La Nave di Teseo, che ironizza sulla persona di Michela Murgia, scrittrice per Einaudi e critica letteraria. L’intento di Parente è quello di modificare intercalari volgari ormai quotidiani della nostra lingua con il cognome della scrittrice, con lo scopo di deriderla, modificando i vari “modi di dire” con concetti pari al “testa di Murgia”.
Sarebbe veramente così brutto se fossimo delle “teste di Murgia”?
Negli anni, Michela Murgia si è esposta per i diritti di tutti e, per i quali, è stata nel mirino soprattutto di molti uomini.
La scrittrice ha deciso di non rispondere direttamente a Parente, lasciando che le parole e le opinioni del suo pubblico parlassero per sé, dimostrando la stima e l’apprezzamento che si è costruito in questi anni.
La scrittrice, nata e cresciuta a Cabras, un piccolo comune in provincia di Oristano, ha iniziato a lavorare all’età di quattordici anni per pagarsi gli studi. Conosciuta per vari titoli, tra cui “Il mondo deve sapere” (2006) – edito da Einaudi – in cui racconta, con ironia, le sue avventure all’interno di un call center di una multinazionale, descrivendo lo sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori. Altrettanto conosciuto è il romanzo “Accabadora” (2009), sempre pubblicato con Einaudi, in cui racconta la vita della Sardegna degli anni Cinquanta, trattando temi quali l’eutanasia e l’adozione. Da queste opere deriva sicuramente il maggior successo di Murgia che hanno fatto sì che riuscisse ad avere un pubblico con cui condividere le proprie idee e i propri pensieri.
Scrittrice, drammaturga, blogger, conduttrice radiofonica ma soprattutto femminista e, come tale, è stata spesso attaccata a livello sessuale. Violenza verbale gratuita con il solo intento di denigrare la donna per questo motivo, rea di esprimere opinioni difformi dall’opinione comune. Nel giro di pochi giorni, siamo stati testimoni di situazioni simili: la giornalista Concita De Gregorio, durante il programma “diMartedì” su La7 lo scorso 22 settembre, è stata l’unica ad essere citata per nome da Alessandro Sallusti, direttore responsabile de Il Giornale, mentre i restanti presenti, di sesso maschile, sono stati chiamati in causa con il cognome. De Gregorio per prima si è esposta, portando in evidenza questo fatto, ed è stata denigrata da quest’ultimo. La giornalista Selvaggia Lucarelli, conosciuta per la sua volontà di portare all’evidenza tutto ciò che c’è di scorretto, è stata più volte attaccata non solo per le sue parole, per i suoi interventi ma bensì, per il suo fisico. Da questi episodi è possibile evidenziare come nel contesto italiano una donna che decide di esporsi con le proprie idee, viene costantemente collegata al suo essere donna, come se questo non le desse la facoltà di mostrare le proprie conoscenze. Ricordiamo che sia Murgia, De Gregorio e Lucarelli sono tra le opinioniste e giornaliste più seguite sui social.
Da molti anni ormai un linguaggio sessista e patriarcale si sta diffondendo nel linguaggio giornalistico e non solo. Anche per questo ricordiamo il buon utilizzo del Manifesto di Venezia, un elaborato varato dalla Commissione pari opportunità della Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italia) che ha coinvolto anche la Cpo Usigrai e GiULiA Giornaliste. Si tratta di un documento per il rispetto e per le pari opportunità, un manifesto di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, nei confronti anche di una corretta informazione, consapevole e attenta. Come riportato sul Manifesto, “la violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”. Il suo scopo è quello di insegnare un linguaggio appropriato, adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere, soprattutto “adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale”. È intenzione del Manifesto, evitare delle espressioni che risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminile.
E Michela Murgia è anche tra le promotrici del progetto #Odiareticosta, una iniziativa dell’associazione “Pensare Sociale”, dedita alla persecuzione di diffamazione, minacce, calunnie inviate attraverso la rete, che spiega alle persone che ricevono insulti come denunciare gli accaduti. Utilizzando le parole di Murgia, “basta fare i superiori, basta far finta di niente”, è arrivato il momento di denunciare, perché l’odio fa male e adesso, odiare ti costa.
L’immagine in evidenza è stata presa dal profilo Instagram di Michela Murgia.