di Barbara Minafra
Il Covid-19 ci ha dimostrato di non sapere cosa sia un confine e di non fare differenze tra chi incontra lungo la sua catena di contagio. Quando la pandemia sarà finalmente finita, forse sembreranno ancora più improduttive e inutili le rivendicazioni localistiche e gli accenti razzisti che hanno caratterizzato soprattutto l’inizio dell’infezione. Ma non necessariamente dimostreremo di aver capito la lezione.
Un capro espiatorio è un istintivo meccanismo di difesa. Ma è impulsivo. Rappresenta solo la reazione naturale, non quella razionale. Riversare sugli altri tutte le colpe, le responsabilità, le carenze, le insicurezze, le paure che ci tormentano, ci auto-assolve, in qualche modo ci fa sentire più forti ma non per questo ci protegge o ci salva.
Quando al suo arrivo abbiamo detto che il virus era cinese, abbiamo messo in atto la semplificazione “Cina e cinesi uguale pericolo” ovvero abbiamo tentato disperatamente di allontanare da noi quel che ci spaventava quando invece il pericolo era ed è il virus. Gli anticorpi non stanno nella geografia, nel razzismo o nella politica. È il problema epidemiologico che va affrontato e risolto per il bene di tutti, a prescindere dalle localizzazioni perché queste non ne disattivano la carica virale.
Anche quando abbiamo improvvisamente trasformato tutti i medici in eroi tragici, in paladini coraggiosi e intrepidi che combattono fino a morire in corsia, abbiamo dimostrato la nostra limitata visione utilitaristica: sono loro le nostre uniche armi, soltanto loro possono rianimarci nelle terapie intensive, sono loro le intelligenze e le sensibilità che ci servono per combattere l’assalto virale. E ci sta che in una situazione di criticità estrema ci si aggrappi all’unica ancora di salvezza a disposizione, che la nostra sia una reazione emotiva. È giustificabile e pure normale. Ma abbiamo la coscienza sporca. Fino a un attimo prima della pandemia, la cronaca era piena di aggressioni verbali e fisiche ai camici bianchi. Occorre un minimo di onestà per essere credibili. Troppo facile il colpo di spugna.
E poi? Quando sarà finalmente finita questa “alleanza pandemica” che ci ha fatto improvvisamente diventare “tutti uniti contro un nemico comune”, che ci ha fatto salire tutti sulla stessa barca mentre fuori la pioggia battente simulava le lacrime e la sera incupiva gli animi, che ci ha fatto applaudire anche le retrovie degli eroi al fronte, questo senso di appartenenza a un unico gruppo si perderà con la stessa velocità con cui si è generato o riuscirà a essere più autentico e sincero, meno opportunistico e magari più duraturo?
È tuttavia immaginabile che non appena uno straniero ci attraverserà la strada, punteremo daccapo il dito contro di lui, l’altro, il diverso da noi. Eppure questa persona sarà un veicolo potenziale di contagio tanto quanto il nostro vicino di casa che ha colto ogni occasione per uscire di casa anche quando non si poteva e oggi, per reattanza, va in giro con la mascherina sul collo. Non è chiaro perché quest’ultimo debba sembrarci comunque più “sicuro”. Forse perché lo vediamo affacciarsi dal palazzo di fronte mentre l’altro chissà da dove arriva, da quale paese proviene, da quale barcone è sceso per portarci via il lavoro? Eppure ci sono stati tantissimi immigrati che sono scesi in campo contro il coronavirus accanto a noi, che non hanno pensato se erano o meno italiani per donare aiuti, per portare la pizza a casa o assistere i nostri anziani a loro rischio e pericolo.
Chissà se ce lo ricorderemo che l’invasore, il nemico, il pericolo è altro. Non il colore della pelle, non la lingua, la religione, il cibo o una cultura diversa. Se un extraterrestre, nel pieno dell’emergenza, fosse sceso a darci la medicina capace di salvare anche una sola delle migliaia e migliaia di persone che abbiamo contato nelle spaventose liste quotidiane dei decessi legati al Covid-19, non l’avremmo forse presa a occhi chiusi, non l’avremmo bevuta all’istante? Sì, ci saremmo fidati. Altro che straniero.
Trasparente come il pregiudizio, contagiosa come l’odio, la paura porta alla semplificazione, non alla soluzione dei problemi. Queste barriere irrazionali riducono le nostre possibilità di comprensione, inquinano l’atmosfera, acuiscono le criticità. Sono mali pandemici altrettanto gravi.
Chissà dunque, se sapremo curarci da un “pregiudizievole” confine mentale, se riusciremo a non fare differenze superficiali e superflue. In caso contrario, contagio dopo contagio, sarà sempre un minuscolo virus a dimostrarsi migliore di noi nel non avere pregiudizi.
Foto copertina Frederica Diamanta.