di Barbara Minafra
Nell’Italia colpita e affondata dal Coronavirus c’è la sintesi di un fenomeno che in materia migratoria non si registrava da tempo: il distacco tra rappresentazione e percezione.
C’è un pericolo e non ne capiamo l’importanza. C’è una prepotente richiesta d’aiuto alle porte dell’Europa che preme sui confini greci e la ignoriamo. Vediamo arrivare uomini, donne e bambini sui barconi e ci infastidiscono: restino a casa loro, non sono un mio problema, non siamo l’America. Ci viene chiesto di stare in casa e partiamo per crociere caraibiche o affollare le piste da sci.
Il nostro Paese sembra rincorrere ciecamente la normalità, incapace di rinunciare alle abitudini, pronto a sfidare la sorte di un facilissimo contagio pur di non restare in salotto, per la serie “tanto non sono nella zona rossa-tanto mi lavo le mani-tanto non sto vicino a malati”. Perché dare ascolto a virologi, infettivologi, rianimatori, Protezione civile e governanti? Se ci invitano a non incontrare gente, a limitare le occasioni di rischio per noi stessi e per responsabilità civile, perché ci ostiniamo a fare diversamente? Ci viene chiesto con precisione e chiarezza di comportarci diversamente dal solito, eppure continuiamo a guardare il mondo filtrandolo attraverso esigenze personali. Abbiamo, oggettivamente, una percezione alterata della realtà in cui predominano esclusivamente le nostre abitudini.
Allo stesso modo, il 7° Rapporto Carta di Roma ci dice che le migrazioni fanno meno paura. Non ci sembri un salto perché l’atteggiamento è analogo. Le osserviamo dalla nostra prospettiva, con i nostri parametri e anche dandogli un’importanza, una valenza “filtrata” dalla nostra personalissima sensazione.
Cosa vuol dire? La frequenza delle notizie dedicate al tema, sui giornali e nei notiziari televisivi, continua ad essere elevata. Anzi, è altissima e persino in crescita. Lo si legge nei numeri. Solo sulla carta stampata è cresciuta del 30% rispetto all’anno precedente. Nei notiziari, si parla di flussi migratori con i valori più alti degli ultimi 5 anni e il 48% dei servizi è relativo a partenze, arrivi, porti, navi. Allo stesso tempo si osservano i valori più bassi degli ultimi 5 anni nella narrazione dell’accoglienza, che tocca un magro 8%. Le notizie da prima pagina che hanno avuto un tono allarmistico sono diminuite rispetto agli anni precedenti per attestarsi nel 2019 su una percentuale del 18%, sei punti percentuali in meno del 2018. Il valore più basso negli ultimi 5 anni di rilevazione. Nei notiziari, su 304 analizzati, un solo giorno non ha avuto notizie sull’immigrazione. Una struttura narrativa così chiusa e rigida, spiega il Rapporto 2019, “impedisce la costruzione di una contro-narrazione: tutte le voci principali partecipano al frame egemonico, che descrive l’immigrazione come un luogo di conflitto tra le cosiddette élite dominanti e il popolo che cerca di tutelare la propria identità”. Arriviamo al punto.
Le migrazioni fanno meno paura, ma solo perché ci siamo “abituati”. Il Rapporto Carta di Roma ci dice che emerge una sorta di rassegnazione, una normalizzazione dell’equazione migranti-criminalità-minaccia. E questo fa sì che, paradossalmente, “gli indici di insicurezza e di preoccupazione nei confronti degli immigrati negli ultimi due anni risultano in calo. In misura molto rilevante”. Qui arriva una spiegazione eticamente brutta ma che la dice lunga sul nostro modo di vivere e leggere la realtà attorno a noi. Perché se la percezione dell’immigrato come minaccia alla sicurezza ha toccato il livello più basso dal 2015, ben 10 punti in meno rispetto a due anni fa, questo non avviene perché l’opinione pubblica ha cambiato idea in materia migratoria ma solo perché si è abituata, per così dire si è assuefatta. Il sondaggio più recente (novembre 2018) ci dice che un italiano su tre (del campione intervistato) guarda i migranti con diffidenza e paura. Quindi non c’è stata un’evoluzione del sentiment. Ma la ridondanza del messaggio immigrato-invasione-insicurezza ha finito, proprio perché ripetuto e amplificato, ha finito per produrre effetti contrari cioè ha smesso di spaventare.
Ilvo Diamanti, docente dell’Università di Urbino, direttore scientifico di Demos&Pi sulle cui indagini si formula il Rapporto, nel leggere i dati li traduce così: “Per citare un riferimento noto e nobile, Hannah Arendt, vengono banalizzati”. In particolare, dice Diamanti, “la ‘banalizzazione dello straniero’ e del ‘migrante’ indica un sentimento di ‘accettazione’ nei confronti di un fenomeno enfatizzato e amplificato ben oltre le misure reali. Perché ci si abitua a tutto. Anche all’incertezza. E alla paura”.
Probabilmente finirà così anche per l’emergenza sanitaria in corso. Accanto a chi non si arrende all’evidenza e sfida con la “sua” normalità il Covid-19, presto ci sarà anche chi si sarà stancato di preoccuparsi di raffreddori, terapie intensive e lavaggi frequenti delle mani, o più semplicemente di stare chiuso in casa.
In entrambi i casi sono “Notizie senza approdo”. Il titolo del Rapporto 2019 si spiega nelle parole del presidente dell’Associazione carta di Roma Valerio Cataldi: “Il valore delle parole lo offre il tempo, lo offre la riflessione, l’analisi delle cose che accadono. In un contesto in cui le parole perdono di senso, invece, anche le domande, l’assenza di spazio per le domande, diventa normale”. Si perde il significato della notizia, si perde l’importanza del richiamo civico a collaborare, a non affollare i luoghi pubblici, a limitare al massimo i contatti.
Certo siamo una società e come tale siamo naturalmente portati a cercare l’incontro, ad aver bisogno di abbracciarci e avvicinarci, e non è facile stare lontano dagli altri. Ma se svuotiamo il senso del richiamo a questo ordine, sacrifichiamo la fatica che altri stanno facendo per contenere la viralità di questo potente agente microscopico. Allo stesso modo sviliamo l’umanità, le “normali” speranze di una vita migliore di chi sfida la sorte dentro i barconi, la voglia di dare un futuro migliore ai propri figli e per questo sbarca nei nostri porti comunque più sicuri di quelli di partenza. Ci accontentiamo nelle nostre mezze verità invece di capire quel che spinge un migrante ad arrivare a casa nostra.
Certo, continueremo a preferire la notizia rassicurante e non allarmistica, quella che ci dirà che nella metà dei casi il Covid-19 si risolverà in una banale influenza o in una sostanziale asintomatologia. L’altra metà dei casi la lasceremo con un sospiro agli over 80 per poi ricordarci improvvisamente che tutti a casa abbiamo nonni, genitori o amici più grandi. Abbiamo bisogno di una percezione addolcita del virus per non spaventarci. Rappresentiamo la realtà a nostro piacimento per venire incontro alla nostra comfort zone, una tranquilla normalità a cui non vogliamo assolutamente rinunciare. In fondo stiamo al comodo delle nostre case, non nelle carceri libiche o sotto le bombe siriane. Eppure fatichiamo ad accettare la realtà per quella che è. Con o senza migranti.