di Manuela Mazzariol
Raccontare la Lawrence House, raccontarla davvero, è difficile come racchiudere il mondo in una scatola. Facile parlare di centro di accoglienza, di minori non accompagnati, di dati e di statistiche. Più difficile spiegarne la quotidianità e le dinamiche. Provate a immaginare vostro figlio o nipote bambino o adolescente, con tutti i problemi legati a quell’età turbolenta e piena di cambiamenti. Moltiplicate per 25. Venticinque ragazzi fra gli 8 e i 19 anni, con esigenze dunque diversissime. Che vivono nella stessa casa e condividono tutto: cibo, camera, sala tv, bagni. Aggiungete che questi ragazzi hanno alle spalle storie di sofferenza, di abbandono, di distacco dal Paese di origine, di abuso o di violenza familiare. Aggiungete che non vivono in un luogo separato dal resto del mondo, ma in una società globale, che porta con sé sogni, desideri e speranze comuni a tutti i ragazzi della loro età.
Questa casa non può essere racchiusa nelle sterili parole “centro di accoglienza”, ma è un organismo vivo, che respira e si evolve, in cui ogni giorno è diverso da quello precedente, in cui si instaurano dinamiche di volta in volta differenti, in cui gli equilibri si creano e si spezzano come le onde del mare, in cui le vite di decine di persone si intrecciano nei modi più inaspettati.
La Lawrence House è un luogo aperto al mondo, un luogo in cui tutti sono benvenuti e possono sentirsi a casa. Ogni giorno si ride, si scherza, si litiga, si sbaglia, si urla, si impara. Fa tutto parte della quotidianità di una casa dove i ragazzi, grazie agli educatori che gli stanno accanto e ad attività e percorsi costruiti per loro, provano a costruire un sé positivo e si preparano ad affrontare al meglio il loro futuro. Se vi capitasse di entrarvi verso le sei del mattino, vi trovereste di fronte a un uragano urlante di bambini e ragazzi che corrono per i corridoi vestendosi, fanno colazione mentre cercano le cose per la scuola, e nel frattempo ascoltano musica, cantano e ballano. Non ho altre parole per descrivere quello che accade alla Lawrence House ogni mattina se non come vita, o come un quotidiano tentativo di demolire l’edificio. In un paio d’ore poi tutti escono per raggiungere le loro scuole, e la casa si spegne in un silenzio quasi surreale.
Tra questi ragazzi c’è Sabine. Ha 15 anni e viene dallo Zambia. Mi ha chiesto di imparare l’italiano, così ogni tanto dopo cena abbiamo fatto qualche lezione di lingua con lei e una sua amica. Mi accorgo presto di quanto sia brava e una sera, mentre chiacchieriamo in cucina, le faccio i miei complimenti. Mi dice che ci tiene molto a studiare la nostra lingua, perché vorrebbe vivere in Italia, a Venezia. Le racconto che Venezia è una città meravigliosa, ma non la più facile in cui vivere. Allora Roma? Perché no? È una metropoli piena di opportunità, un po’ caotica forse… forse meglio Milano.
Parlo con lei sorridendo, ma mi chiedo se venendo nel mio Paese troverebbe il futuro che sogna o diffidenza, emarginazione e razzismo.Sabine mi dice che vuole completare gli studi e trovare un buon lavoro, mettere da parte i soldi e poi tornare in quei luoghi dove ora va in gita con i bambini della Lawrence House, come le spiagge dei ricchi. Vuole andare lì con i suoi soldi, ed essere trattata come una persona normale, con rispetto, non più come un bambino bisognoso che suscita compassione.
Mi dice che vuole viaggiare, girare il mondo, conoscere culture diverse, e nelle sue parole rivedo me stessa alla sua età. Con una piccola differenza: io con il mio passaporto posso andare ovunque, o quasi; lei non ha nemmeno un certificato di nascita. Da anni qui alla Lawrence house stanno lottando per farle ottenere un documento che ancora non c’è. Così lei va a scuola, ma solo informalmente: se non salta fuori quel pezzo di carta e non si riesce a registrarla non otterrà mai un diploma che attesti i suoi studi, non potrà lavorare in maniera regolare, né fare nulla di quello che sogna una ragazza di quindici anni. Oltre a vedere il mondo, Sabine vuole anche una famiglia e dei bambini. Da adolescente il suo unico timore è quello di non riuscire a conciliare i due desideri, e rifiuta di pensare che senza documenti nulla di tutto ciò sarà realizzabile.