“Azione o comportamento che mira a creare artificialmente, e per lo più allo scopo di ottenere un preciso risultato, un clima di tensione”: la Treccani definisce così l’allarmismo, quel clima diffuso che sembra pervadere i nostri media, insieme alle derive populiste e demagogiche nate come reazione alla crisi del capitalismo e ai conseguenti cambiamenti geo-politici ed economici in atto.
Nel 2017 è stato registrato un significativo incremento dei toni allarmistici sulla carta stampata: quasi 20 punti in più rispetto all’anno precedente (dal 27% del 2016 al 43% dello scorso anno). Detto altrimenti, 4 titoli/notizie su 10 risultano avere un potenziale ansiogeno. I dati sono del quinto Rapporto della Carta di Roma, il quale registra toni allarmistici nella dimensione dei flussi migratori, nel racconto delle morti in mare, nell’urgenza dei soccorsi, nell’emergenza degli arrivi, nella gestione dell’accoglienza. Si parla della criminalizzazione del soccorso in mare, delle infiltrazioni terroristiche, delle condizioni di profughi e migranti nei campi di detenzione, e si mettono in correlazione le migrazioni (economiche o per ragioni umanitarie) con la sicurezza del Paese, la diffusione di malattie, il disagio sociale, i problemi di convivenza.
Lo scorso anno ha segnato maggiore visibilità per criminalità e sicurezza, terzo tema con il 16% dei titoli sulle prime pagine dei quotidiani, dopo la gestione dei flussi migratori (prima voce nel 2017 con il 44%) e l’accoglienza a quota 24% che però, pur occupando la seconda posizione, si dimezza rispetto al 2015. Per il Rapporto della Carta di Roma permane una sovraesposizione del tema della criminalità e della visibilità di migranti e profughi come autori di reato. In particolare, il racconto di fatti relativi ai crimini e alla minaccia all’ordine pubblico è quasi tre volte in più rispetto al 2015. In un certo senso, anche se non ci fosse connessione esplicita tra le due notizie, le due questioni finiscono per associarsi nella testa del lettore.
Nel suo saggio sull’opinione pubblica datato 1922 – ben 96 anni fa – Walter Lipmann scriveva: “Non c’è nulla più refrattario all’educazione, o alla critica, di uno stereotipo. Si imprime sull’evidenza, nell’atto stesso di constatarla”. In altre parole, più si consolida un certo tipo di visione sociale, una certa interpretazione della società, più si deforma la lente, si distorce una lettura corretta degli eventi, si condiziona l’occhio di chi guarda.
Se poi a corroborare il preconcetto, a incidere sull’opinione pubblica già densa di tensioni (che nell’hate speech hanno una diffusione social), sono le testate giornalistiche (cioè la comunicazione formale, istituzionalizzata, riconosciuta), il potere di condizionare e avallare un certo tipo di lettura sociale, di interpretazione della realtà, si amplifica. Gli articoli di giornale finiscono per avere un peso superiore, per essere titoli, parole e dunque idee più “pesanti” del dovuto, divenendo alibi o sponde morali di atteggiamenti discutibili, al punto che il comportamento violento se non accettato risulta almeno giustificabile, indotto da un certo clima.
Il fatto stesso che in 10 mesi 14.813 titoli siano stati dedicati all’immigrazione e nel 2017 siano stati solo 43 i giorni senza questo argomento, racconta la visibilità continua del tema (anche se con un’intensità inferiore rispetto agli ultimi due anni quando le giornate senza notizie erano 12), e la dice lunga sugli effetti dell’esposizione mediatica.
Il fenomeno migratorio non solo è sempre più strutturale e meno emergenziale ma a livello sociale è “pane quotidiano”, è una sorta di strada obbligata, una presenza anche per chi materialmente non incontra immigrati per strada. “Senza sorpresa”, dice il quinto Rapporto, “migrante” e “profugo” sono fra i termini più presenti nei titoli, utilizzati 2.455 (17% dei titoli) e 1.322 volte (9%).
Se si analizza la produzione giornalistica si ha una conferma della tendenza positiva rilevata negli ultimi anni: l’utilizzo di termini giuridicamente scorretti risulta diminuito. “Migrante” e “profugo” hanno stabilmente sostituito “clandestino”, termine stigmatizzante che resta tra i 30 più ricorrenti nei titoli (195 volte rispetto ai 6 quotidiani nazionali esaminati). Evidentemente, non si deve abbassare troppo la guardia se l’Associazione Carta di Roma ha appena aggiornato le Linee Guida per l’applicazione del protocollo deontologico su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti del 2008 e lanciato la campagna “Vediamo l’effetto che fa”.
Poiché la scelta delle parole dà forma al racconto, ne disegna il contenuto e se si sbaglia l’uso delle parole si deforma il fatto raccontato, si invita a un esperimento sociale e comunicativo: sostituire “clandestino” con “persona”, la parola “immigrato” con “uomo/donna” per arginare il dilagare dell’intolleranza legata agli stranieri che si manifesta anche con parole aventi una semantica che rimanda all’hate speech.
Questo perché, se le “violazioni colpose” della Carta di Roma – che derivano dalla scarsa conoscenza del principio costituzionale che sancisce il diritto all’asilo e della Convenzione di Ginevra – sono diminuite, sono parallelamente aumentati i titoli che “connettono deliberatamente comportamenti criminali all’appartenenza religiosa o alla nazionalità dei loro autori”. Il messaggio subliminale che passa, continuando a depositarsi, stratifica l’ansia, rafforza l’allarme sociale, consolida il pregiudizio e con le nostre paure finiamo per rafforzare ciò che ci spaventa.