
di Barbara Minafra
Il codice di condotta europeo per combattere l’incitamento all’odio illegale online, sottoscritto nel 2016 da Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft, sta dando i primi frutti: quasi due terzi dei messaggi violenti segnalati in Europa (Italia al 67%) vengono rimossi nel giro di 24 ore. Instagram e Google+ hanno annunciato che a breve aderiranno a queste norme che, integrando la legislazione contro il razzismo e la xenofobia, prevedono il perseguimento degli autori dei reati di incitamento all’odio, sia online che offline. I dati della Commissione europea confermano che, in media, in un caso su cinque c’è stata la segnalazione dell’autore alle autorità di polizia.
Ma il cuore del problema non risiede nelle misure di contenimento dell’hate speech, ma nelle cause che lo generano e diffondono. E nei suoi algoritmi. Lo spiega Cass R. Sunstein, docente alla Scuola di Legge di Harvard che, studiando il legame tra democrazia e internet, “traduce” i meccanismi con cui funziona la rete e il loro impatto sociale.
Quando Facebook predispone newsfeed su misura che adattano il contenuto delle nostre ricerche ai nostri gusti e vincola i nostri contatti a gruppi di persone simili, che hanno gli stessi interessi e a cui piacciono le stesse cose, finiamo dentro gabbie virtuali. Queste sintonie creano quelle che Sunstein chiama “echo chamber”, camere di eco che amplificano le opinioni personali.
In altre parole, chi parla in rete si rivolge a gruppi di persone che la pensano allo stesso modo e i margini di confronto si riducono sempre più al punto che ci si disabitua al dialogo, al compromesso, si diventa incapaci di comprendere la differenza, di rapportarsi con essa e si finisce per estremizzare il proprio punto di vista, per negare chi pensa o è diverso da noi.
Sunstein descrive il mondo online fatto di “bozzoli di informazione”, come un sistema che sfrutta “pregiudizi di conferma” e ha “imprenditori di polarizzazione” che sanno come manipolare i vari trend di pensiero.
Tutti strumenti che minano i fondamenti della democrazia. Ma anche, ad un livello più individuale, condizioni che riducono progressivamente la capacità di dialogare, di confrontarsi con gli altri. La sua ricetta per salvarsi è il caso: esporsi a persone, a luoghi, cose e idee che non avremmo mai scelto per il nostro feed di Twitter o Facebook. Invita a uscire dalla campana di vetro che creiamo nel web, dove ci lasciamo sedurre da chi la pensa come noi e dove finiamo per isolarci attraverso i nostri like che tracciano ponti invisibili con chi è simile a noi e muri altrettanto invisibili (ma ancor più pericolosi) che ci separano sempre di più da chi è diverso da noi.
Insomma, se i feed sempre più stringenti di Facebook e Twitter organizzano le persone in gruppi omogenei, il rimedio è ostacolare i selettori automatici di notizie e di contatti, per interfacciarsi con piattaforme differenti in modo da renderle interpretabili: una volta iniziato l’interscambio di contenuto, si infrange l’isolazionismo imposto dalla bolla (filter bubble) del “ciò che conta per me”.
In caso contrario viene meno l’arte del trattare, anche del sano combattere per affermare la propria opinione, che passa dal contrattare con l’avversario e non dal denigrarlo fino all’eradicarlo. Perché, se è più facile sentirsi spalleggiati da chi la pensa allo stesso modo e non mettere in discussioni se stessi e le proprie convinzioni, isolarsi da chi la pensa diversamente produce una polarizzazione di opinioni da un lato (legata alla self reputation) e, dall’altro, una “auto-selezione” in cui le persone, come dice Sustein, “entrano nelle camere di eco o nei bozzoli di informazioni”.
Da questa compartimentazione di pensieri e di persone affini, ai discorsi di odio il passo è breve. Altrettanto facile è poi quella che la psicologia descrive come group polarization – la polarizzazione dei gruppi – ossia il meccanismo per cui le posizioni più estreme possono diventare più radicali tra persone che si scambiano opinioni simili.
Queste dinamiche cognitive (e relazionali) non sono legate solo a Internet: nella vita di tutti i giorni tendiamo a relazionarci con gli amici per avere “comfort zone” sociali. Ma esporci a sensibilità differenti ci fa entrare nelle “learning zone”, gli spazi di apprendimento in cui gli stimoli esterni (che comportano anche disagio iniziale, instabilità, vulnerabilità), sviluppano le nostre capacità di reazione e adattamento. Questo porta ad alzare le asticelle individuali e la nostra prestazione sociale, più elastica, diventa innanzitutto uno spazio personale di crescita. Se questo processo non si mette in moto, tutto quel che sta fuori da casa nostra finirà per scatenare reazioni di difesa. Come l’hate speech, che in fondo è una rovinosa ed estrema forma di autodifesa.