Sull’agenzia Ansa di venerdì 5 febbraio, alle 14.59, compare quello che sarà il tormentone mediatico dei prossimi mesi: l’illegalità e i rischi di devianza rappresentati dai profughi, bene amplificati dalle notizie sulle violenze carnali ai danni di donne. In questo caso, la notizia si riferisce a una ragazza di 22 anni violentata a Colonia (Germania); per la quale è stato fermato un profugo afghano.
È interessante, e sconcertante allo stesso tempo, notare come la violenza maschile su una donna – da parte di un marito o di un ex-fidanzato – sia presentata dai giornali come espressione di un “raptus”; o come l’esito di una “lite”, meglio se “furibonda”; oppure come la conseguenza di una serie di “dissapori”, incomprensioni e tensioni.
Se invece la violenza su una donna è frutto dell’azione di una persona “straniera”, allora la notizia assume una diversa ideologia: l’estraneo incarna il pericolo letale, la minaccia estrema, il male da debellare, l’attacco a quanto vi è più caro (la figura femminile, procreatrice e in quanto tale portatrice di speranza).
C’è poi da osservare il cambiamento semantico che possiamo osservare essere in corso sulla parola “profugo”, termine che pure dovrebbe essere collegato alla fuga dalla guerra, dal terrore e dalla miseria causata dai conflitti. L’accostamento con le violenze ai danni di donne, porta il termine “profugo” ad assumere via via una connotazione negativa: perde il primario significato di espressione dei mali, dei dolori e delle violenze provocate dalla guerra, per incarnare il significato secondo di minaccia incombente e ansiogena alla convivenza civile.
Possiamo evidenziare, nel caso della notizia dell’agenzia Ansa, il processo di “nominalizzazione” che qualifica la notizia sin dal titolo: “Colonia: violentata ragazza di 22 anni a Carnevale. Fermato profugo afgano. L’abuso dopo averla picchiata fino a svenimento”. Il violentatore viene qualificato non in quanto uomo, maschio; né in quanto giovane; né per altre caratteristiche personali. Il violentatore viene nominato sulla base del suo status di “profugo”.
Questa notizia, collegata ad altre notizie di violenze su donne (a Colonia, ma non solo) da parte di profughi, grazie al processo di nominalizzazione, contribuisce a rendere la parola “profugo” (e quindi il suo status) come l’espressione di una minaccia, di un pericolo. L’uso reiterato della parola “profugo” – che è frutto di una scelta da parte dei giornalisti, non di un dato oggettivo ed esclusivo – porta poi la pubblica opinione a pensare che i profughi possano, di per sé, costituire non solo un problema economico e sociale; ma anche una minaccia.
È indubbio che fra i profughi – non fosse altro che per un fatto statistico – vi possano essere criminali, violentatori, ladri e malfattori, come anche uomini e donne dai capelli rossi, dagli occhi verdi e del segno zodiacale dello scorpione (o del leone, o dell’acquario). Quello che è importante notare è che, nel caso dei profughi, gli uomini che usano violenza sulle donne sono presentati per il loro status giuridico e sociale appunto di “profughi”; anziché di maschi, di adulti (o di giovani) o come espressione di una certa ideologia (fascisti, nazisti, liberali, comunisti, liberisti).
Vi è poi da notare come sia notiziabile, specie nei media generalisti, la violenza di soggetti che appartengono a gruppi minoritari e svantaggiati (profughi, migranti, Rom). La violenza, pur peggiore e con danni ben maggiori, data dalla violazione dei diritti civili, dallo sfruttamento economico, dalla ingiustizia sociale, non viene tematizzata dai media. Anzi, non assume proprio le caratteristiche della notizia. Il sospetto è che la violenza dei profughi sia più funzionale agli interessi economici dei media, che – trincerandosi dietro i “valori notizia” – dimostrano così di essere asserviti al potere del più forte. Non certo all’interesse dei lettori.