Quello visto la sera di mercoledì 13 gennaio, alla trasmissione La Gabbia, su La7, possiamo definirlo uno “storytelling politico” e una “marmellata mediale”. I temi dell’Islam e dei diritti, della libertà delle donne, del rispetto per la condizione femminile, dell’incrocio fra culture diverse è stato trattato con i modi del peggior servilismo ideologico e politico: superficialità, strumentalizzazione dei fatti, mancanza di approfondimento, conflitto come filo rosso conduttore, servitù verso una visione neorazzista della cultura.
Possiamo dire che la parte di trasmissione intitolata “La libertà delle donne” è stata un’operazione di storytelling al servizio delle élites di potere, senza avere nulla del giornalismo professionale. Il giornalismo professionale, per intenderci, è quello che si documenta, analizza i fatti, approfondisce le questioni e fa parlare gli esperti con l’obiettivo di capire al lettore la realtà, non di dimostrare una tesi inventata. Il giornalismo professionale, va ricordato, è anche quello – autonomo e indipendente – che fa da cane da guardia del potere e dell’élite, non che si inventa gli scontri di civiltà per fare un servizio alle cricche dominanti.
I titoli dei servizi trasmessi da “La Gabbia” di La7 parlano da soli: “La Germania fa i conti con lo scontro di civiltà”, “L’accoglienza negata agli invisibili italiani”, “Gli islamici: le donne senza velo non vanno rispettate”, “Rosarno, bomba sociale pronta ad esplodere”. Si è partiti da una serie di manifestazioni in Germania, a seguito dei fatti gravissimi e da condannare di Colonia, per ribadire la tesi cara a Oriana Fallaci dello “scontro di civiltà”; si è poi passati a raccontare la condizione di alcuni senza fissa dimora italiani, per far vedere che lo Stato non li aiuta, ma in compenso spende soldi per i rifugiati
La serie di servizi filmati è passata poi a rappresentare come pensiero unico degli “islamici” l’opinione di alcuni uomini di religione musulmana, a Milano: ovvero che le donne vanno rispettate solo se indossano il velo. Un’opinione di maschilisti, e senza rispetto per le donne, prima ancora che uomini islamici. Un’opinione peraltro senza valore statistico che non può dirsi rappresentativa del mondo maschile islamico.
L’ultimo servizio filmato ha poi denunciato il degrado in cui vivono i lavoratori immigrati a Rosarno, con una narrazione che da sfruttati li ha fatti passare per un male da estirpare: la colpa è insomma dei lavoratori stranieri asserviti ai caporali, non di chi beneficia di quella loro condizione.
Ai servizi filmati si è alternato un dibattito in studio falsato sin dall’inizio dalle premesse: quello di fondarsi su servizi pseudogiornalistici, ma di fatto narrazioni politiche e ideologiche fondate sul pensiero dello “scontro di civilità” e sull’odio verso l’Islam. Ovvero un pensiero tanto caro ad alcuni giornalisti e certamente tanto comodo agli interessi di alcuni Paesi stranieri e di alcuni potentati economici. Perché va detto che dietro ogni “narrazione politica”, dietro ogni “ideologia” – anche quella anti-islamica e dello “scontro di civiltà” – vi sono precisi interessi economici e di potere.
“La Gabbia” sulla “libertà delle donne”, per voce di un giornalista in studio, è poi riuscita a trasmettere un messaggio che si pensava consegnato al passato del maschilismo italiano: che il poter indossare la minigonna è un segno di libertà. Ora, che sia proprio la minigonna il segnale principale di libertà, ci pare alquanto azzardato.
Trasmissioni come “La Gabbia” di La7 sulla “libertà delle donne” sono la dimostrazione che certo giornalismo italiano è ancora prigioniero dei vecchi e storici suoi difetti. E che lo è anche nel rapporto fra media e immigrazione; fra media e islam; fra media e diversità culturale.
Certo giornalismo italiano è ancora un giornalismo “paraletterario” – uno storytelling alla buona, insomma – e un giornalismo asservito a interessi economici e politici (italiani e talvolta anche stranieri). Un giornalismo, insomma, senza autonomia intellettuale e professionale.