Media e immigrazione, l’arrivo dei profughi dalle zone di guerra ha messo a dura prova i giornali italiani (stampa, siti web, tv, radio). E ha rivelato i limiti dei media italiani nel rappresentare il fenomeno delle migrazioni, siano essere determinate da motivi umanitari, prodotte dal desiderio di trovare lavoro; oppure siano causate dalla volontà di migliorare lo status economico.
Tre sono i punti critici che i media italiani hanno mostrato, nella calda estate di quest’anno. Tre punti che gli studiosi dei media, come il gruppo di ProsMedia, peraltro ben conoscono. Il primo è il punto critico del linguaggio: i giornali hanno mescolato immigrati, richiedenti asilo, rifugiati, profughi, clandestini e irregolari.
Facendo il lavoro di desk – come giornalista responsabile delle pagine di Interni-Esterni dei quotidiani del Gruppo Athesis (L’Arena, Giornale di Vicenza e BresciaOggi) – e dovendo selezionare e impaginare le notizie (e le foto), ho registrato un elemento: è pressoché impossibile trovare una foto, nel sistema editoriale, se si fa la ricerca con la parola “profugo/i”. E’ molto più facile trovare fotografie con la parola “migranti”, “immigrati” o addirittura clandestino/i.
Eppure, chi nei giornali si occupa di immigrazione, sa bene che i barconi in arrivo dalla Libia sono soprattutto affollati di persone che fuggono dalle zone di guerra.
Il secondo punto critico è la sudditanza e la mancanza di filtro verso i politici. Nel linguaggio e nell’agenda dei giornali, un solo politico – peraltro di un partito che in Italia non raccoglie più del 15-20% dei voti – può far credere che le persone sui barconi sono clandestini. Sono invasori. Sono soggetti pericolosi. E sono soggetti profittatori, a cui sono riservati trattamenti principeschi (hotel, diaria giornaliera, servizi di prim’ordine).
Certo, non è escluso che fra i migranti e i profughi, come fra i cittadini di tutte le comunità, vi siano malintenzionati, soggetti pericolosi e finanche delinquenti. Non è neppure escluso che vi siano stati delle situazioni di privilegio, peraltro date a persone che nella loro vita hanno visto il peggio dell’umanità e della guerra. Questo, però, non giustifica il considerare – senza una seria indagine e senza dati ufficiali – la maggior parte dei migranti come clandestini e come privilegiati.
Il terzo punto critico è la mancata contestualizzazione del fenomeno dei profughi. Pare che le persone che scappano dalle zone di guerra – per non dire di chi scappa da violenza domestica e miseria – appaiano all’improvviso senza avere un passato, una ragione di fuga, un motivo di spinta all’emigrare. Quasi mai i giornali hanno scritto e scrivono i “presupposti” delle migrazioni, siano esse per motivi economici, siano esse per motivi umanitari: la guerra non viene tematizzata; non si dice che l’Europa (Francia e Italia in primis, in Libia, ad esempio) è una grande produttrice e venditrice di armi. E che le armi alimentano le guerre regionali; e che le guerre “producono” i profughi e i migranti.
L’Unione Europea viene chiamata in campo, attraverso le dichiarazioni del politico di turno, solo per tamponare e distribuire i profughi. Non per intervenire alla fonte, nelle zone dell’Africa e del Medio Oriente martoriate dalla violenza, dove occorrono progetti di pace; e progetti di prosperità e di crescita economica e dei diritti.
Che cosa fare per andare oltre gli stereotipi, i pregiudizi e le routines giornalistiche del rapporto fra media e immigrazione? Come lettori, è importante attivare il proprio senso critico: verificare, controllare, analizzare dove portano le parole; quale “ideologia” vi è dietro la scelta linguistica; a quali interessi soggiace un certo giornale, o radio, o tv, o sito web di informazione. Essere, insomma, lettori di qualità. Arrivando a chiudere, anche, la pagina di un sito web (e passare a una migliore), quando si coglie la manipolazione o la superficialità dietro il narrare di certi giornalisti.
Come giornalisti, è importante avere presenti le linee per un giornalismo che sia interculturale; che sia un buon giornalismo. Ecco quindi, la scelta consapevole e corretta delle parole: così come non confondiamo un viceministro con un sottosegretario, o un assessore con un consigliere comunale; occorre evitare di confondere un migrante economico con un profugo, e un profugo o richiedente asilo con un clandestino o irregolare.
Occorre andare oltre: guardare il contesto; avere presente il presupposto di un certo accadimento; porre attenzione alle strumentalizzazioni politiche del nostro mestiere; essere sensibili al ruolo “formativo” (e non solo “informativo”) della stampa quando parla di immigrazione. E’ poi importante interrogarsi sulla “ideologia” a cui facciamo riferimento – esplicitata da noi stessi, a noi presente, oppure implicita e non dichiarata – quando usiamo certe parole, certi temi; quando diamo un certo taglio alla notizia, o quando la accostiamo a un’altra notizia.
La partita in gioco, nel tema del rapporto fra immigrazione e media in Italia, è molto alta. E’ la partita della democrazia; di una stampa libera; di una stampa di qualità; di un sistema dei media al servizio dei lettori e non al servizio di interessi palesi od occulti. E’ la partita della “ideologia”, del sistema di valori che vogliamo testimoniare, come lettori o come giornalisti.