L’utilizzo di sostantivi e aggettivi che denotano la provenienza geografica o l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, soprattutto nei titoli, è purtroppo prassi piuttosto consolidata nel giornalismo italiano a tutti i livelli.
Prassi con radici profonde che si riscontrano fin dagli anni Cinquanta quando i media, confrontandosi con l’immigrazione interna dal sud al nord Italia, raccontavano i protagonisti della cronaca nera come calabresi o siciliani creando pregiudizi ancora oggi difficili da sfatare sui cittadini meridionali. A farne le spese oggi sono soprattutto migranti, rifugiati politici, richiedenti asilo e la comunità Rom e sinti, tra le più colpite da pregiudizi e razzismo, segregata nei “villaggi attrezzati” alla periferia delle grandi città italiane, discriminata e quasi completamente esclusa dalla vita sociale italiana.
Soffermandosi sull’origine degli autori di un reato si corre il grave rischio di ridurre intere comunità nazionali a etichette di criminali, ladri o rapinatori. Data l’influenza che i media hanno sulla formazione di opinioni e sui comportamenti sociali, e la rapidità di diffusione delle notizie attraverso il web, possiamo constatare che «il fenomeno è stato talmente rilevante negli ultimi anni da creare una pericolosa classifica di gradimento delle nazionalità che ci piacciono di più e di quelle di cui diffidiamo sempre e comunque» come spiega Raffaella Cosentino all’interno del libro Parlare Civile.
Usati soprattutto nei fatti di cronaca nera questi aggettivi e sostantivi oggi diventano criterio di notiziabilità per le testate giornalistiche che puntano al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione della notizia. Mentre il “marocchino” arrestato come presunto terrorista si conquista tutte le prime pagine, anche se la notizia non è stata verificata, i giovanissimi Rom adescati, sfruttati e avviati alla prostituzione minorile da adulti italiani non interessano a nessuno.
Dunque fa notizia lo straniero colpevole, o presunto tale, più che la vittima. Spesso inoltre i crimini sono nel primo caso descritti come efferati rimandando etimologicamente ad una ferocia che va “oltre la bestialità” e quindi primitiva. Il crimine commesso da uno straniero diventa la scusa per alimentare un allarme sociale che desta l’attenzione del pubblico. La storia del giornalismo degli ultimi anni è piena di delitti imputati a persone straniere per poi scoprire che gli assassini erano italiani come per esempio il caso di Novi Ligure e quello di Erba.
Indicare la provenienza di un soggetto protagonista di un fatto di cronaca anziché identificarlo con il proprio nome porta all’identificazione fra l’atto criminoso ed un intero gruppo sociale a cui si fa appartenere il soggetto creando una etnicizzazione delle notizie. Si tratta di “un nuovo lessico razzista sotto mentite spoglie” come affermano gli studiosi Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli. La parola razza viene camuffata parlando di etnia o cultura. Tuttavia nelle lingue romanze, a differenza di quelle anglosassoni, il termine etnia è viziato dalla lente del pregiudizio, per la tendenza a giudicare gruppi differenti dal proprio utilizzando i parametri della propria educazione. Ciò comporta le creazione di un neo-razzismo subdolo perché non palese, ma teorizzante la superiorità di alcune culture sulle altre e la loro incomunicabilità.
Per essere all’altezza della responsabilità sociale che ricoprono le testate italiane dovrebbero evitare locuzioni come “forse romeni, avevano l’accento dell’est, presumibilmente algerino ecc” poiché indicano un’informazione non verificata o non verificabile e probabilmente infondata. Inoltre è necessario seguire con attenzione le linee guida della Carta di Roma che raccomandano: “Informazioni quali l’origine, la religione, lo status giuridico – immigrato, richiedente asilo, rifugiato, regolare/irregolare ecc. non dovrebbero essere utilizzate per qualificare i protagonisti se non rilevanti e pertinenti per la comprensione della notizia”.