Gelosia e raptus di un “bravo ragazzo”. Così i giornalisti continuano a giustificare i colpevoli di violenza e omicidio di genere avvenuti in questi giorni: il femmicidio di Stefania Ardì ad opera di Andrea Tringali e l’aggressione con violenza sessuale di una tassista a Roma, confessata da Simone Borghese. Rappresentazioni e letture cliniche errate che vengono veicolate dai mezzi di informazione senza preoccuparsi delle ripercussioni che questi stereotipi potrebbero avere sui lettori. Giornali e telegiornali hanno una grande responsabilità, anche educativa, che spesso è sottovalutata: quella di indirizzare il pensiero comune e di offrire gli strumenti per discutere, definire le situazioni, leggere e interpretare gli eventi.
Parlare di gelosia in un caso di omicidio-suicidio è un errore: l’offender Andrea Tringali si è ucciso subito dopo aver sparato alla donna non per gelosia ma perché sentiva di aver perso un oggetto di sua proprietà, una parte di se stesso; in caso contrario probabilmente avrebbe agito anche contro il rivale. Ancora una volta l’episodio violento è stato rappresentato come un omicidio di genere avvenuto per concorso in colpa; per i giornali la vittima è corresponsabile dell’azione violenta, colpevole di aver scatenato il gesto: “Ha sparato alla ragazza perché non lei non voleva tornare con lui ed è salita nella sua auto e stava andando via”. Le giustificazioni trovate per raccontare i gesti dei due offender italiani riecheggiano anche nelle parole di amici e conoscenti che contribuiscono a rafforzare l’apparente inspiegabilità di ciò che è accaduto: “Conoscevo molto bene il giovane Andrea Tringali che era un ragazzo mite e proviene da un famiglia per bene, deve essere stato un momento di follia. Mi spiace molto per lui e la giovane”.
Non c’è però nulla di incomprensibile ed in questi episodi violenti e molte associazioni e addetti che operano sul territorio lo sanno bene; ma ancora una volta si preferisce non inquadrare il fenomeno utilizzando dati oppure interviste a chi si occupa di violenza per mestiere. Ancora una volta si preferisce ricorrere a facili stereotipi – ormai ripetuti per prassi – per non ragionare sulle vere cause e sulle radici culturali del problema della violenza di genere. Ancora una volta si giustificano gli offender parlando di gesti d’impeto causati da malattie psichiatriche, senza peraltro consultare esperti, portando i lettori a credere che non esistono segnali precedenti a questo tragico epilogo e che i colpevoli non siano capaci di intendere e volere. Per evitare tutto questo sarebbe necessaria una formazione accurata rivolta a chi si occupa di informazione, che dovrebbe occuparsi di contestualizzare i singoli avvenimenti, senza avventurarsi in letture cliniche o “amorose” con competenze che non possiede, rischiando di trasformare un articolo di cronaca in un trattato errato di psichiatria o in un pezzo di cronaca rosa.