Il caso Williamson-Fritz può essere definito un enorme errore giudiziario e la stampa ha assunto una posizione di condanna verso i due accusati, appiattendosi sulle versioni ufficiali degli organi inquirenti e giudicanti, senza considerare ipotesi alternative. È questo il fulcro della tesi “Un innocente nel braccio della morte: i giornali e il caso Williamson – Fritz”, condotta da Nina Kapel, ricercatrice ProsMedia, che ha analizzato la seguente vicenda in occasione della laurea magistrale del dicembre 2011.
La storia. Nella piccola cittadina di Ada, Oklahoma, tra il 7 e l’8 dicembre 1982 venne uccisa l’allora ventunenne Debbie Carter. Quasi sei anni dopo, era l’aprile del 1988, Ronald Williamson e Dennis Fritz saranno condannati, il primo alla pena di morte e il secondo all’ergastolo, per l’omicidio della giovane. Le principali prove contro i due consistevano in testimonianze di detenuti e guardie carcerarie, degli investigatori e dei periti che seguirono il caso, in primis la versione del procuratore William Peterson; e la comparazione in laboratorio dei peli ritrovati sulla scena del crimine. Secondo tali analisi le formazioni pilifere rinvenute potevano appartenere ai due indagati. Le impronte digitali ritrovate, però, non appartenevano a nessuno dei due. Nel 1994, a soli cinque giorni dall’esecuzione della pena capitale per Williamson, il giudice d’appello acconsentì a far sospendere tutti i procedimenti contro di lui. Due furono le motivazioni principali: l’incostituzionalità della prima difesa e il fatto che Williamson soffriva di depressione e di disturbo bipolare da diversi anni, con sintomi di schizofrenia e disturbo della personalità. Solo nel 1999 e grazie alle analisi del Dna sul liquido seminale prelevato dalla scena del crimine, i due verranno prosciolti da tutte le accuse e verrà identificato il vero colpevole per l’omicidio di Debbie Carter, Glen Gore.
I risultati della ricerca. Con un questionario costruito ad hoc e con l’aiuto di un software per l’analisi linguistica dei testi sono stati analizzati gli articoli de “The Oklahoman”, il giornale geograficamente più vicino e che ha sistematicamente trattato i fatti dal 1987 al 2010, per verificare come la stampa locale abbia presentato questo clamoroso caso di errore giudiziario.
Attraverso l’analisi delle dichiarazioni, nella fase che va dall’arresto dei due sospettati alla condanna, e che temporalmente ricopre gli anni Ottanta, è emerso che oltre la metà degli articoli riportava le dichiarazioni del procuratore William Peterson, delle autorità, degli investigatori e, in parte minore dei testimoni dell’accusa (principalmente si tratta di detenuti, ufficiali e guardie carcerarie). Una sola dichiarazione, seppur di innocenza ma presentata come una menzogna, apparteneva a Williamson e a Fritz. Così, il 62,5% degli articoli ha riportato le prove contro i due uomini, mentre non è stata rilevata la presenza di alcuna prova scagionante.
Nel 1994, dopo che Williamson avrà ottenuto un nuovo processo, la stampa si dimostrerà diffidente e critica nei confronti di questo “assassino”. In un secondo momento comincerà, però, a interrogarsi sulla verità dei fatti, il che coinciderà con una maggiore diversità nella scelta delle fonti, e sull’utilizzo dei fattori aggravanti nei casi penali che portano spesso alla pena di morte. Grazie alle analisi del Dna, disponibili appena negli anni Novanta, i due saranno definitivamente assolti da tutte le accuse e diventeranno, anche per la stampa, delle persone innocenti, ingiustamente condannate per un omicidio che non hanno commesso, e vittime di un errore giudiziario.